Monday 1 September 2008

demise:dismay






















(click picture to see a larger version)


This photo is dedicated to the fucker who stole my camera: we will meet again one day.


Does an ethical code exist in photography? Is there a threshold in photo manipulation beyond which it can be said we’ve gone too far? After all, the first attempts of photo manipulation date back to the early days of photography. Well before the digital revolution. Probably, some techniques may appear more “ethical” than others. Take this photo for instance, it is likely that nobody would ever blame me for having desaturated the original (unless he saw the colours version and reckoned it was more appealing) and thus altered, in a way, the reality. But here’s where the argument becomes circular.

What’s the intent of a photograph? Is it about what we see or what we feel? I believe both levels are important. The explicit message of the photo is what is immediately perceived, the expression on a face in a well executed portrait, an exotic landscape. But then there’s an implicit message, which is the sentiment the photographer tries to convey, the highly subjective response triggered in that very moment in the photographer’s emotional circuit. Communicating such feelings is for sure the hardest task not only when we take a photo, but also when we reinterpret that particular moment in front of a computer, trying to re-exhume our innermost feelings, and translate them into the final ‘output’.

So, what about this b&w? Perhaps the colours were not as relevant for the soul as they might have been for the eye. Maybe some photos are capable to bypass the first sensorial response, and penetrate the soul straight, screaming and shaking it from the inside.

Manipulated pixels yet pristine sentiment. Here lies the ethics maybe. To let the manipulation be a personal process, with the aim of reaching the deep core of a feeling, slowly and silently, rather than a trick conceived to seduce the eye and gain immediate attention. Eyes are deceptive, truth lies in our eyelids.


Thanks to my dearest friend Pamela, whose comments on this photo contributed to gain inspiration for this text.



Questa foto e’ dedicata al fottuto bastardo che mi ha rubato la fotocamera: ci incontreremo nuovamente un giorno.


Esiste un codice etico in fotografia? Esiste una soglia, nella manipolazione delle fotografie, al di la’ della quale possiamo asserire di esserci spinti oltre? Dopo tutto, le prime tecniche di manipolazione fotografica risalgono alle origini della fotografia stessa. Ben prima dell’avvento della rivoluzione digitale. Probabilmente alcune tecniche possono apparire piu’ “etiche” di altre. Prendete ad esempio questo scatto, e’ probabile che nessuno si lamenti per il fatto che io abbia desaturato l’originale (a meno che non abbia visto l’originale a colori e lo abbia trovato piu’ interessante) e in qualche modo alterato la realta’. Ma e’ qui che l’argomento rischia di diventare circolare.

Qual e’ il vero intento di una foto? Riguarda cio’ che vediamo o cio’ che sentiamo? Io credo che entrambi i livelli siano importanti. Il messaggio esplicito rinchiuso in una foto e’ rivelato da cio’ che viene immediatamente percepito, l’espressione dipinta sul viso in un ritratto ben riuscito, il fascino di un paesaggio esotico. Ma poi vi e’ un messaggio implicito, che riguarda il sentimento che il fotografo cerca di trasmettere, la risposta altamente soggettiva innescata in quel preciso istante nel circuito emotivo del fotografo. Comunicare un tale sentimento e’ uno dei compiti piu’ difficili, non solo nel momento in cui si scatta, ma anche quando reinterpretiamo quel particolare momento di fronte ad un computer, cercando di riesumare la nostra interiorita’, e tradurla nel prodotto finale.

Cosa dire, dunque, di questo bianco e nero? Forse i colori non erano rilevanti per l’animo alla stesso modo in cui potrebbero esserlo stati per l’occhio. Forse alcune foto possiedono la capacita’ di aggirare la prima risposta sensoriale, insinuandosi immediatamente in fondo all’anima, urlando, e scuotendola da dentro.

Pixel manipolati, inalterati sentimenti. E’ forse tutta qui l’etica. Lasciare che la manipolazione di una foto sia un processo personale, con lo scopo di raggiungere il nucleo di un sentimento, lentamente e silenziosamente, piuttosto che esser concepita per sedurre l’occhio, e attrarre attenzione a tutti i costi. Gli occhi sono ingannevoli, la verita’ risiede nelle palpebre.


Ringrazio la mia cara amica Pamela, i cui commenti a riguardo di questa foto hanno contribuito a trovare l'ispirazione per questo testo.

6 comments:

Anonymous said...

Una riflessione molto interessante... partiamo da un fatto: la fotografia è nata già "manipolata". Non erano forse in b/n le prime foto? Già questa mi pare un notevole "distacco" (non mi viene altro termine ora) dalla realtà.
E' certo vero che il digitale consente al fotografo stesso (e penso in particolar modo ai dilettanti) maggiore libertà di azione dopo lo scatto, cosa che con la pellicola prima era preclusa a chiunque non lavorasse con camera oscura e acidi vari.
Quanto all'eticità della manipolazione, io credo che ciascuno si debba porre un suo limite personale in base a quello che della realtà percepisce, o che vuole far percepire.
Personalmente non mi piace manipolare troppo perché credo che la fotografia sia comunque un rapportarsi in maniera diretta con la realtà dell'occhio, anche se parziale, soggettiva, limitata e selettiva. In ogni mio scatto - anche negli astratti - io voglio che la connessione con la realtà si percepisca sempre perché credo che la perdita di quel legame faccia sì che i miei scatti diventino qualcos'altro. Ovviamente questa è la MIA sensibilità.
Cosa rivela una foto? La bellezza di un momento, di un luogo, di uno stato d'animo. Certo, ogni osservatore vedrà la foto con la propria soggettività, ma io credo che il fotografo bravo sia quello che è capace di imporre la propria. Dico "imporre", per dire far emergere, connotare in maniera più forte. Quante volte mi è capitato di guardare una foto e capire che essa racchiude qualcosa che al momento non sono in grado di esprimere ma che si insinua lentamente in me.
Sono d'accordo con te, comunicare i sentimenti è la cosa più difficile, soprattutto perché tale sottile comunicazione prevede che tra chi "parla" e chi riceve ci sia non dico la stessa lunghezza d'onda, ma almeno qualche punto in comune.

Mi dispiace molto per il furto subito... chi ti ha fregato la macchina e chi non fotografa non sa che la macchina fotografica al di là del mero valore monetario ha un valore non solo affettivo, ma - e il mio non è feticismo - oserei dire "amoroso": non è semplice oggetto, è un qualcosa che si lega indissolubilmente con chi la usa.

gaz said...

Al di là delle interessanti riflessioni che proponi e che anche Francesco contribuisce a sviluppare, io ti porto solo il mio piccolo contributo da osservatrice: la tua foto a me trasmette pathos!!!

Complimenti

(si, sono convita anch'io che un giorno lo ritroverai..)

luca:sehnsucht said...

Grazie Francesco e Gaz, e' proprio cosi', mi sembra come di aver perso un arto, o un figlio. Non mi aspetto di ritrovarla, perche' sono praticamente dei professionisti (ovviamente e' in Italia che mi e' successo). Ma comunque, vuol dire che e' tempo per un piccolo upgrade!

Riguardo all'argomento di questo post, la manipolazione, in senso lato, e' parte integrante della fotografia digitale. Il fatto e' che alcune persone credono che il jpeg che vedono sul display della fotocamera sia un po' il corrispettivo della stampa da pellicola. E invece e' anche quella una "manipolazione". Perche' alla fine quello che la fotocamera registra non e' che una serie di numeri, che il processore interno della fotocamera provvede a trasformare nell'anteprima, usando una serie di impostazioni per la conversione. Ma trovare una impostazione standard e' praticamente impossibile. Il RAW, se usato bene, permette che la scelta dei parametri ottimali per la conversione sia fatta da noi, piuttosto che dalla fotocamera. E' in quel frangente che tendo ad aggiungere del mio, ma mi limito normalmente a personallizare il bilanciamento del bianco e del verde, e talora il livello di saturazione. Il problema, piuttosto, e' che molti non si rendono conto che con l'eccessivo ritocco, soprattutto se effettuato sull'immagine gia' convertita da RAW, finisce per degradare l'istogramma. Un minimo di conoscenza teorica puo' aiutarci molto a pilotare il nostro istinto.

antonio said...

ora pero' vogliamo vedere la foto destrutturata della tua cara amica Pamela

luca:sehnsucht said...

ti devi sempre far riconoscere tu :D
e soprattutto, perche' non riesco a entrare sul tuo blog?

Anonymous said...

Forse i commenti in un blog non sono il posto adatto per una discussione (o forse anche sì) però è necessario fare una distinzione: la "foto digitale" non esiste! Esiste se mai la "foto digitalizzata" che è cosa diversa. Il sensore CCD infatti, pur essendo un apparato elettronico, tratta la luce che lo attiva in modo continuo tale e quale come fa la pellicola. E' compito del processore poi convertire il segnale luminoso in una serie di numeri, possiamo dire che digitalizza la luce rendendola discreta. E già questa è la prima manipolazione, perché già a questo livello viene deciso quali intervalli di frequenza "tenere" e quali non registrare.
Poi sul resto siamo d'accordo: meno post-produzione c'è e meglio è. Diciamo che sarebbe il caso che non si vedesse troppo. Del resto, con la pellicola a qualcuno verrebbe in mente per esempio di dire "come hai usato bene questo bagno di sviluppo!"?
Non credo proprio. La conoscenza tecnica è importante, sia della macchina fotografica, sia del/dei programmi di fotoritocco usati. Io ho (finalmente!) iniziato a studiare un manuale di Photoshop e sto scoprendo cose e procedure che manco mi sognavo!

 
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